giovedì 24 aprile 2014

Dal diario di Frank Iodice: 20 e 21 aprile 2014

21 aprile, mattina - “Io scrivo per ribellarmi e non per leccare i piedi ai burocrati”

Un autore di testi dovrebbe avere un'etica personale. La mia mi impone normalmente di non avere mai a che fare con i burocrati. Non so perché da due mesi a questa parte mi sia messo nelle loro mani per ottenere il permesso di utilizzare la filosofia di Mujica. Forse è stato il senso di responsabilità, il fatto che dietro di me ci fosse un paese intero, il paese della filosofia, il mio editore che mi assicurava un sostegno economico, oppure perché questa non sarà una vera e propria pubblicazione in quanto alcune frasi inserite nel testo non sono le mie ma del Presidente stesso.
Fatto sta che chi nasce tondo, come si suol dire, non muore quadrato... Poco fa ho avuto una piccola discussione con un impiegato del Ministero, il cui nome farò meglio a non rivelarvi, una discussione che è terminata con la frase che dà il titolo a questa nota e che adesso riporterò integralmente:
Mi hanno detto di passare dopo le feste per informarmi su una dichiarazione di interesse che apparentemente il Ministero dell'educazione vuole farmi accludere alla pubblicazione del saggio sulla felicità. La tua dichiarazione è qui, ecco cosa ti hanno scritto. Ma questo non è quello che mi hanno detto di persona l'ultima volta che sono venuto; siete stati voi a propormi una dichiarazione di interesse, per quanto mi riguarda volevo soltanto il permesso del Presidente di utilizzare alcune sue frasi. Non è abitudine del Ministero emettere dichiarazioni di interesse per pubblicazioni edite. Pubblicazione già significa che un testo è edito, non c'è bisogno di dire pubblicazione edita. Emettere una dichiarazione significherebbe avallare il contenuto della tua pubblicazione. Che cosa avete letto di tanto grave da farvi cambiare idea? Nulla, non è nostro compito giudicare le qualità letterarie del testo, inoltre, dato che si tratta di un saggio ispirato alla vita del signor Presidente, dovresti essere autorizzato da lui, e non mi sembra il caso. L'ultima volta che sono stato qui, la tua collega al primo piano ha parlato al telefono con la segreteria della presidenza e le hanno detto che potevo scrivere quello che volevo; inoltre la scorsa settimana ho incontrato anche il Presidente, guarda, ho persino una fotografia in cui siamo abbracciati! Lo hai intervistato? Perché avrei dovuto!, io non sono un giornalista, ognuno deve fare il suo mestiere; avevo solo bisogno di guardarlo negli occhi e stringergli la mano per dare un'anima al mio personaggio. E di cosa avete parlato, allora? Della felicità, una cosa a cui tu hai deciso di rinunciare quando ti sei messo la cravatta!, ma non preoccuparti, ho capito perché non mi darete il vostro consenso, è a causa dei racconti degli anziani, quelli che ho riportato integralmente!, questa si chiama censura! Ma quale censura! Non ve lo aspettavate che avrei intervistato amici di infanzia del Pepe e di sua moglie, vero?!, pensavate che avrei raccontato la solita storiella che raccontano sui giornali, ma io non sono un giornalista, te lo ripeto, dell'economia e degli investitori stranieri non mi importa niente, io scrivo della vita vera, della miseria in cui vivono i tre quarti dei tuoi concittadini mentre tu ti trastulli dietro a quella bella scrivania da burocrate! La burocrazia non è uno scherzo, giovanotto!, esigo il tuo rispetto. Non credo che lo avrete mai, io scrivo per ribellarmi e non per leccare i piedi a quelli come te.

21 aprile, pomeriggio - La dichiarazione d'amore del MEC

Rientrando a casa ho ricevuto un messaggino sul telefonino! Un'impiegata del Ministero dell'educazione in Italia ve lo ha mai mandato un messaggino sul vostro telefonino?! Beh, a me, sì, ed ecco quello che mi ha scritto: ciao Francisco, sono Adriana, del MEC, ho saputo che hai incontrato il Presidente, complimenti!!!, non preoccuparti per la dichiarazione di interesse, ci penso io.
Ora, premesso che non mi sarei mai aspettato che mi contattassero così, ho esitato per un momento perché non sapevo se dirle subito che avevo appena mandato a quel paese il suo collega del sesto piano oppure se fare come fanno le ragazze quando ti dicono una bugia senza dirtela in realtà, vale a dire, omettendo una parte della verità, quella parte in cui sono contenute le bugie. Non è facile, soprattutto perché essere una ragazza è un'arte che non si improvvisa quando sei un ragazzo, ma ci ho provato. Se puoi, passa di qui più tardi, mi ha detto, e porta la lettera che ti hanno dato, la buttiamo!
Così sono tornato al MEC per parlare con lei, l'ho trovata disponibile e sorridente come sempre, mi ha fatto accomodare e si è scusata per il comportamento del collega. Gli spiego io che il tuo testo è soltanto una parte del progetto, gli racconto del paese della filosofia e delle scuole, non preoccuparti. Per la verità, le ho risposto, a me della dichiarazione del ministro non è che importa poi così tanto!, non mi fraintendere Adriana, ma il fatto che a loro, al sesto piano, il testo non sia piaciuto, per me è una vittoria e non una sconfitta. È per questo che sei sempre così sorridente? Anche per questo; comunque, ti dicevo, per me è un fatto di etica, ho sempre scritto per ribellarmi a quelli come il tuo collega del sesto piano.
Ho raccontato ad Adriana che da quando sono qui avrei potuto raccontare le solite storie, trattare argomenti di interesse economico, e invece ho preferito parlare con la gente vera, con gli anziani del barrio, che mi hanno raccontato la versione del popolo, quella che a me interessava di più, non quella dei politici. Quando Adriana mi ascolta, mi sembra sempre che le piaccia la mia voce più delle parole stesse, e che quello che dico le serva per ritrovare il coraggio di inseguire la sua felicità. Il testo va bene, mi ha ripetuto sorridendomi, non c'è nessun motivo per cui non debba piacergli, il mio collega deve aver frainteso tutto. Ti ringrazio Adriana, sei dolce, e credi nella felicità, è alla gente come te che è dedicato il saggio; della dichiarazione d'amore del MEC non m'importa niente...


20 aprile – La vera Montevideo, per chi ama la verità

Recentemente è stato realizzato un reportage di quarantotto minuti sull’Uruguay. Un giornalista italiano è venuto qui e ha intervistato alcuni imprenditori locali, titolari di aziende vinicole e agrarie, nonché il Presidente Mujica nella sua chacra.
Il reportage della televisione italiana è molto interessante, descrive la vita di chi in Uruguay ha investito soldi e fatica e ne sta raccogliendo i frutti. Il giornalista, inoltre, portava una bella cravatta gialla e arancione e aveva noleggiato una macchina veloce all’aeroporto di Carrasco, con la quale si è potuto spostare anche verso l’interno, e verso le mete turistiche della costa. Per migliorare l’economia di un paese bisogna parlare degli investimenti possibili in modo da invogliare gli imprenditori stranieri a venire qui e spendere i loro soldi. Questo ci è chiaro. Ma ci sono tante altre cose di cui parlare, che non hanno nulla a che fare con l’economia, sono cose di cui nessuno parla. E adesso ve ne parlo io.
La scorsa settimana, per esempio, sono stato nel lato povero della città, nella zona dell’Ippodromo, dove la gente vive in case di mattoni e lamiere, strade intere fatte di mattoni e lamiere, che d’estate ardono come padelle sul fuoco e d’inverno si congelano. I bambini che vivono in questi quartieri, di mattina, non riescono ad alzarsi perché si svegliano congelati, e quando verso le undici il sole incomincia a riscaldarli, finalmente escono a giocare. Non tutti sanno scrivere, molti sanno a stento parlare, per far rispettare i loro spazi usano pugni e morsi. L’umidità raccolta sotto i bassi soffitti durante la notte si trasforma in gocce ghiacciate che cadono sui loro letti per tutto il giorno, e di sera sono costretti a coricarsi nelle lenzuola umide. D’estate, invece, quando le temperature qui raggiungono quaranta gradi all’ombra, le lamiere scottano e in quegli stessi letti ci si scioglie in una pozza di sudore.
Quando un giornalista deve parlare di economia, nel quartiere dell’Ippodromo non ci mette piede altrimenti i turisti e gli imprenditori stranieri non si convincono a venire in Uruguay. Ma io non sono un giornalista, sono uno che sta vivendo questa città con il corpo e con l’anima. Può darsi che a voi non importi nulla delle bidon-ville e della povera gente che va in giro con gli asini e i carri di legno per raccogliere plastica e carta dal fondo dei bidoni dell’immondizia; vederli mentre si tuffano nei bidoni non è bello come vedere i ricchi turisti argentini e brasiliani che si tuffano in acqua a pochi chilometri da qui, sulla spiaggia di Punta del Este.
Mi dispiace per gli imprenditori e per i laureati in economia, ma quando fai lo scrittore come lo faccio io te ne freghi degli investimenti possibili e ti occupi della miseria, perché la maggior parte degli uruguaiani vive nella miseria, vale a dire in condizioni che noi in Europa non siamo in grado di immaginare.
Nel reportage della televisione italiana non hanno neanche parlato del sistema legislativo di questo Paese, e in particolare di una legge che vieta di arrestare i minori di diciotto anni. Ci sono istituti di recupero per i minori, dove per un omicidio si prevedono tre anni, che diventano due se ci si comporta bene, e ancora meno se ci si comporta benissimo. Questi istituti si chiamano INAU, ce ne sono tre a Montevideo, ognuno funziona in una maniera diversa. Quello che ho visitato io è una specie di carcere, ci sono le sbarre alle finestre e si devono dividere i ragazzi per non farli sbranare a vicenda. I cinque impiegati che ci lavorano hanno dovuto frequentare persino un corso di autodifesa prima di essere assunti. In altri istituti per minori – mi hanno raccontato – si usano le droghe, e i ragazzi passano il giorno a letto.
A causa di questa legge a favore dei minori, a Montevideo c’è un tasso di criminalità giovanile molto alto, soprattutto perché gli adulti che vogliono rapinare un negozio o commettere reati anche peggiori, usano i ragazzini, per cui si creano piccole bande di un adulto e tre ragazzi per esempio, in quartieri pericolosi come Marconi o Casavalle. Il mio amico Pablo, che ci lavora, dice che non è facile resistere a lungo nell’INAU, gli impiegati restano al massimo un paio d’anni là dentro; lo stesso vale per le impiegate, se non subiscono prima violenze gravi.
Ci sarebbero tante cose di cui parlare, basta sedersi al bar e osservare le persone, e le loro storie ti arrivano nelle mani senza che tu faccia alcuno sforzo. Questa è una città piena di storie, c’è molto di più che uno sparuto gruppetto di imprenditori che hanno fiutato affari d’oro e si sono fatti intervistare dalla televisione italiana; l’Uruguay è un paese di gente libera, che non accetta compromessi, ma è anche un paese di donne sole che si realizzano soltanto rimanendo incinta, gravidanza dopo gravidanza dopo gravidanza, talvolta con uomini diversi, e a vent’anni già hanno tre figli; appena il più grande incomincia a camminare ne vogliono un altro, e poi un altro ancora, perché, senza, non sarebbero nulla, soltanto povere e anonime passanti.

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