Questa
riflessione, lo ammettiamo, arriva un po’ tardiva, quando ormai i
fuochi della polemica si sono già acquietati e l’editoria nostrana
si proietta verso nuovi (e dolorosi?) bilanci. Eppure ci sembra
necessario riprendere una discussione sullo stato dell’industria
del libro e sui grandi eventi che la caratterizzano perché siamo del
parere che il movimento fieristico, che in questa stagione è quanto
mai vivace e ricco di appuntamenti, sia uno dei perni di questa
querelle.
Si
è chiusa appena il mese scorso la Buchmesse, la fiera internazionale
dell’editoria che ogni anno raccoglie a Francoforte, in Germania (e
questo non è un dato irrilevante), milioni di visitatori. Eh,
appunto, visitatori. E le case editrici?
Anche
quest’anno gli organizzatori hanno registrato un calo degli
espositori rispetto al 2012 (si è passati dai 7300 della passata
edizione ai 7100 attuali), descrivendo una tendenza negativa in atto
già da qualche anno (nel 2010 erano 7539). E l’Italia?
Il
nostro paese registra il passivo più rilevante di questa edizione:
solo 220 le imprese partecipanti con un calo del 7%. Segno della
crisi che attanaglia l’editoria? Probabilmente sì, ma quali sono
gli estremi di questa crisi?
Come
ogni anno all’apertura della manifestazione, il Punto
Italia è stato vivacizzato
(pura ironia la nostra, ce ne scusiamo con gli animi sensibili) dalla
presentazione del Rapporto sullo
stato dell’editoria in Italia 2013,
curato da Nielsen per l’AIE, l’Associazione Italiana degli
Editori. I dati contenuti nel resoconto (è possibile visionarne una
sintesi sul sito www.aie.it nella
sezione Cifre e Numeri) non sono per niente incoraggianti: il 2012 è
descritto come l’annus
horribilis dell’editoria
nostrana.
I
parametri che tratteggiano la crisi sono quelli che, prima ancora di
qualsiasi altra considerazione di carattere socio-culturale,
attengono all’aspetto principale di una qualunque impresa
industriale: il mercato. Rispetto a questo dato le case editrici
denunciano un nuovo crollo delle vendite, che si attesta sui
complessivi 3,1 miliardi di euro, con un calo del 6,3% e che si
aggrava se da queste cifre disaggreghiamo i numeri relativi ai ricavi
del non book (cartoleria varia e gadget, che riempiono a vista
d’occhio le librerie del Paese) e dei remainders (le eccedenze di
magazzino e gli stock di copie invendute rimessi sul mercato a metà
prezzo).
Tra
le altre informazioni che possono servire alla nostra disquisizione,
il Rapporto
registra un mutamento delle gerarchie di vendita, con una crescita
costante degli acquisti online a discapito della libreria fisica (e
soprattutto di quella indipendente) e un, ci pare, conseguente
incremento del mercato degli ebook, a fronte anche di una più
aggressiva offerta da parte dei venditori di e-reader.
Un
dato confortante in tutto questo c’è ed è che, sebbene di poco,
stia crescendo il tasso di lettura in Italia. È difficile
comprendere da quale parte stia il merito, ma indubbio è il ruolo
che in questo ha assunto il digitale nel favorire la diffusione del
libro e della lettura in quei settori e tra quelle fasce di
popolazione che tradizionalmente si avvicinano poco ai testi. E del
resto, non possiamo nemmeno ignorare il fatto che la scuola italiana
stia andando verso la strutturazione di una didattica ad alto tasso
di digitalizzazione, il che richiede una conversione del libro di
testo con un conseguente aumento non solo delle vendite (forzate), ma
anche della lettura (obbligatoria).
Il
commento di Marco Polillo, presidente dell’AIE, a questi dati la
dice lunga sull’insofferenza generalizzata che serpeggia tra gli
addetti ai lavori. Polillo apre la sua chiosa (il documento è
presente sul sito) lamentando con amarezza che se lo scorso anno una
politica del libro era urgente, ora è decisamente in ritardo e ha
generato pericolosi danni: calo del fatturato del 14%; crisi
occupazionale con numerose imprese editrici che hanno fatto ricorso
alla cassa integrazione; continua chiusura delle librerie; drammatico
accesso al credito; e, non ultimo, un preoccupante calo dell’export.
Polillo, che è anche Presidente di Confindustria Cultura, dopo il
confronto con lo stato in cui versano gli altri mercati librari
nazionali, lancia apertamente una critica alle istituzioni dalle
quali si attende «una politica per il futuro», la quale non si basi
su meri sussidi, ma «un supporto basato su regolamentazione,
sostegno all’innovazione e promozione culturale». Egli ravvisa,
inoltre, alcuni temi caldi sui quali ritiene si debba urgentemente
intervenire per risollevare le sorti dell’editoria nostrana:
una
seria promozione della lettura, che parta anche da iniziative
ministeriali o che per lo meno non sottragga i fondi a disposizione
di quelle già avviate altrove;
l’adeguamento
dell’IVA sugli ebook, che sono ancora aggravati dell’aliquota al
22%, a differenza della carta che gode di un trattamento
privilegiato: ci pare un passo necessario, se si considera la
crescita del mercato digitale;
una
ri-determinazione degli equilibri competitivi nei canali commerciali
del libro in tutto il mondo, perché gli ebook hanno una natura più
internazionale e stanno aprendo alla concorrenza internazionale
anche i mercati ecommerce
del libro fisico e stanno modificando i rapporti tra ecommerce
e commercio tradizionale, mettendo a rischio le librerie. E questo
può avvenire solo attraverso un rafforzamento delle norme sul
prezzo fisso, come avviene nel resto d’Europa;
una
presenza più marcata di contenuti culturali nell’agenda digitale:
l’Italia ha fatto una battaglia a Bruxelles per sostenere che
nell’agenda digitale europea dovesse esserci la cultura. Ed è
stata una battaglia vinta. Poi, tornati in Italia, di cultura
nell’agenda digitale quasi non si parla. Eppure, quando si seguono
strade diverse i risultati si vedono. È di questi giorni
un’interrogazione di due parlamentari europei del nostro paese,
Silvia Costa e Luigi Berlinguer, che chiede al vice presidente della
Commissione, Neelie Kreus, di dare priorità agli interventi sul
tema dell’accesso dei non vedenti ai contenuti digitali, e in
particolare ai libri. Lo fanno ricordando l’esperienza italiana,
che sta destando l’interesse nel resto d’Europa, grazie al
progetto LIA - Libri Italiani Accessibili. È la dimostrazione che
quando facciamo sistema conquistiamo posizioni di leadership nel
mondo, sappiamo essere innovativi.
Ci
sembra, tuttavia, che in questo elenco manchi, o probabilmente non
era pertinente, un’attenzione al ruolo che nella nostra industria
editoriale assolvono le fiere (del libro, dell’editoria o di tutto
ciò che è legato al tema della lettura). La scarsa presenza di
editori a Francoforte ha scatenato veraci polveroni e scontri
polemici sulle pagine dei quotidiani nazionali e dei blog culturali.
Su tutti vi rimandiamo alla diatriba mossa dal corsivo, una geremiade
incosciente, a nostro avviso, di Gian Arturo Ferrari, presidente del
Cepell, sul Corriere della Sera del 14 ottobre
http://www.corriere.it/opinioni/13_ottobre_14/scoprire-non-contare-piu-nulla-5ec8121a-34ed-11e3-b0aa-c50e06d40e68.shtml
e alla quale hanno risposto per le rime, tra gli altri, Christian
Raimo dalle pagine di Minima&Moralia, il blog culturale della
Minimum Fax,
(http://www.minimaetmoralia.it/wp/giusto-due-parole-a-gian-arturo-ferrari/)
e Paola Del Zoppo, direttrice editoriale di Del Vecchio
(http://www.senzazuccheroblog.it/gian-arturo-ferrari-rapito-dagli-alieni/#comment-2112).
Al
di là di questa caduta dalle nuvole di Ferrari, il quale è rimasto
inorridito dai corridoi italiani deserti della Buchmesse, c’è un
dato che non può sfuggire: effettivamente Francoforte non è alla
portata dell’editoria italiana. O forse, ci chiediamo noi, è
arrivato il momento in cui l’impresa culturale italiana non abbia
più voglia di puntare sulla fiera?
Ora
non vogliamo sobillare altri, e ingloriosi, vespai, ma vogliamo
avviare una riflessione su questo segmento importante della politica
commerciale (e culturale, indubbiamente) in questo momento di
rigoglio di appuntamenti e a pochi giorni dall’apertura di Più
libri, più liberi, la Fiera della Piccola e Media Editoria, che
inizia a Roma il prossimo 5 dicembre.
Indubbiamente
le fiere dell’editoria hanno rappresentato, nel corso degli anni,
una delle vetrine più accattivanti per le aziende italiane e per i
nostri scrittori, perché consentono al lettore di avere sottomano le
produzioni più recenti e più interessanti degli editori italiani,
di conoscere i cataloghi di quanti restano più defilati e di entrare
a diretto contatto con i suoi beniamini della penna. La domanda è
lecita: ma questo non lo fanno già i social network, i cataloghi
digitali, i siti delle diverse imprese e i blog culturali? Cui
prodest, allora, impegnare
denari ed energie per tentare un’operazione di promozione che è
già assolta naturalmente dagli strumenti della multimedialità 2.0?
Le
analisi più recenti ci dicono che, con Pinterest capofila, tutti i
social network sono diventati le vetrine più agognate dagli editori
italiani: basta fare la conta dei profili su Twitter e dei loro
follower per comprendere quanto oggi raggiungere il lettore e farsi
conoscere sia davvero all’ordine del giorno. Eppure c’è ancora
chi difende a spada tratta il ruolo svolto dalle fiere nel mercato
librario internazionale. E già, perché c’è forse un elemento che
su tutti dà valore a questa esperienza e si chiama, per optare (e
piegare ai nostri scopi) un’espressione di un santo del secolo
scorso: convivialità delle
differenze. Già perché le
fiere offrono quel contatto umano e quell’incrocio di storie,
esperienze, sperimentazioni e innovazioni fondate sul sacro valore
della parola, quella parlata, quella scambiata face
to face, quella fatta di dispute
infervorate e amabili conversazioni da salotto, che qualsiasi mezzo
di comunicazione non può offrire o può farlo solo in parte.
Soprattutto
per quegli eventi dedicati alla piccola e media editoria (che
rappresenta la maggior fetta della realtà produttiva italiana
secondo Antonio Monaco, Presidente del Gruppo Piccoli Editori di
AIE), come Più Libri, Più Liberi, che partirà il prossimo 5
dicembre al Palazzo delle Esposizioni all’EUR a Roma. Questi,
infatti, possono essere l’occasione per le piccole editrici
italiane, e in questo il settore non è dissimile dal tessuto
imprenditoriale fatturiero, che hanno un’elevata capacità
innovativa, ma anche una fragilità imprenditoriale nella
capitalizzazione e nelle risorse finanziarie. Per esse la Fiera
rappresenta l’occasione per far arrivare al lettore (e in queste
occasioni parliamo di lettori forti curiosi di scoprire le
sperimentazioni e i prodotti alternativi) quelle iniziative che
restano fuori dai giri del grande marketing e delle discussioni
virtuali: come dice Francesca Chiappa, di Hacca edizioni, si ha la
possibilità di far conoscere il proprio progetto editoriale accanto
a tante altre proposte di qualità scelte con cura dagli
organizzatori e presentate senza prevaricazioni da parte dei grandi
marchi sui piccoli e permettendo al lettore di scegliere in autonomia
ciò che preferisce.
Ma,
a prescindere da queste considerazioni, la fiera è l’occasione, a
nostro avviso, perché gli editori si confrontino sul serio sulle
urgenze dell’agenda culturale e dell’industria editoriale
nazionale e internazionale per individuare strategie comuni, sinergie
da attivare, indirizzi comuni da seguire per trovare l’alternativa
a questa crisi della lettura, delle vendite, della cultura che
oggigiorno rischia di vanificare gli sforzi complessivi di uno dei
settori più importanti dell’industria mondiale, che è l’industria
della cultura, sulla quale prima o poi anche la politica dovrà fare
affidamento. E questo è possibile farlo solo uscendo dall’hortus
conclusus dei propri spazi, che
spesso, nelle Fiere – e su questo hanno ragione i detrattori –
diventano delle piccole fortezze inespugnabili in cui ognuno guarda
al suo orticello e non riesce ad andare oltre.
È
quindi più indicato, allora, sulla scorta di queste considerazioni,
puntare sulle iniziative come Bookcity, che si inaugura oggi a
Milano, e vuole essere più che una vetrina, un’agorà di
discussione, di incontro e di promozione della lettura diffusa, senza
uno spazio fisso e puntando alla valorizzazione di tutti quei posti
nei quali il libro può trovare il suo spazio e il suo ruolo di guida
educativa, interagendo e integrandosi con la multimedialità globale
dell’era della virtualità (tutte le info si trovano sul sito
http://www.bookcitymilano.it/).
Non
possiamo dire per certo se oggi le Fiere hanno ancora valore nel
mercato librario e culturale (né immaginiamo esista una risposta
definitiva). Vogliamo però iniziare a discuterne, nella convinzione
che il futuro dell’editoria deve essere costruito da una forte
spinta all’innovazione, dal sostegno delle istituzioni e,
soprattutto, da un sano spirito corporativo, passateci il termine,
che offra agli editori strade/spazi/occasioni per incontrarsi,
parlare, creare sinergie e magari anche alleanze.
Postilla
semiseria: questo post è stato scritto nella caffetteria di un
grosso store librario italiano. Nel corso della redazione, chi scrive
ha potuto assistere al via vai curioso e affascinato di frotte di
clienti di tutti i tipi, ma in special modo di ragazzini affascinati
da questo angolo ricreativo di ristoro e dai libri tutti attorno.
Sarà forse il caso di pensare alle Fiere del libro in accordo con
gli operatori enogastronomici? Non dimentichiamo di essere italiani e
di amare, prima di ogni altra cosa, la buona cucina. E, a parte gli
scherzi, iniziative in tal senso sono già avviate da anni e la
commistione con i prodotti culinari non sono certo una novità del
panorama librario. Ma questo risolve davvero il problema?