Che cos'è la felicità?
È la domanda che da secoli l'umanità si pone, mai pienamente
soddisfatta della risposta. La felicità è diventata, nel corso
delle ere, una meta da raggiungere, un traguardo da tagliare, un bene
da conquistare. È questo che ha spinto pensatori di tutte le parti
della terra a ricercarla per comprendere dove essa si situi.
Ma se la felicità si
trovasse agli estremi confini della Terra? È quello che si è
chiesto lo scrittore Frank Iodice, italiano trapiantato a Nizza, il
quale sostenuto da Lupo Editore e dal Comune di Corigliano d'Otranto,
nella persona del suo sindaco Ada Fiore, ha intrapreso un viaggio in
giro per il mondo alla scoperta di luoghi ed esperienze felici. La
prima tappa è Montevideo, in Uruguay, dove Frank incontrerà il capo
di Stato José Alberto Mujica Cordano, 78 anni, detto “El Pepe”,
il Presidente dei poveri, per intavolare con lui un dialogo sulla
felicità.
Ecco il primo resoconto
di viaggio che Iodice ci ha mandato dall'Uruguay.
Riguardo al nostro
progetto
Coloro che non credono
nelle proprie idee folli, vorrebbero rovinare anche quelle degli
altri; bisogna essere testardi e non ascoltare nessuno, solo quella
vocina che ci dice: vai.
Fin da piccolo, mio padre
mi ha insegnato a essere un uomo libero e a parlare a chiunque con la
stessa passione, al salumiere Tonino, quando vivevo a Napoli ed ero
solo un bambino, o a un Presidente della Repubblica, se mai un giorno
sarebbe successo. Ed è successo!
Quando ho sentito per la
prima volta i discorsi del Presidente José Mujica, mi sono detto:
quest’uomo può cambiare lo stato delle cose, risvegliare quel
sentimento di ribellione sacrosanto che ci rende uomini e donne
liberi e che ormai sembra assopito nell’animo di tanta, troppa
gente. Così, ho incominciato ad appassionarmi alla sua filosofia di
vita e a tradurre in italiano i suoi discorsi e le interviste che i
vari giornali di tutto il mondo hanno realizzato negli ultimi anni.
Ma non mi bastava, io
volevo fare di più, soprattutto per i bambini. Mi sono reso conto
che i giornali, per ragioni ovvie, non potevano fare a meno di
confondere il messaggio filosofico con quello politico, e del
secondo, francamente, non me ne importava nulla. Se avessi voluto
approfondire il secondo aspetto, mi sarei documentato sulle origini
del partito del Frente Amplio, contraddittorie con gli attuali
programmi filo-madureschi e pro-minerari; avrei intervistato un po’
di gente nel Barrio Palermo, quello vero, quello in cui se non fai
attenzione ti rubano anche le scarpe, e scoperto che in fin dei conti
a Montevideo non tutti vedono Mujica come un salvatore, anzi...
girano voci controverse circa la sua magnanimità; avrei scoperto che
gli anziani, quegli stessi uomini e donne che negli anni Sessanta
hanno condiviso la cella con lui, oggi conoscono le vere ragioni
delle sue rinunce economiche e delle sue scelte di vita; dopo aver
ceduto il novanta per cento del suo stipendio a un programma di
recupero per abitazioni destinate a giovani madri senza lavoro, avrei
scoperto che Mujica ha venduto il progetto ai venezuelani, i quali lo
hanno pagato venti milioni di dollari! Tutto questo lo avrei scoperto
se mi fossi interessato politicamente alla faccenda, invece, come vi
ho detto, il mio è stato un approccio filosofico.
È così che ho deciso di
scrivere un saggio sulla felicità, da distribuire tra i giovani
pensatori nelle scuole europee.
Per realizzare questo
testo e ottenere il permesso del Presidente, senza alcuna certezza
che ci sarei riuscito, sono partito per l’Uruguay con un biglietto
di sola andata e uno zaino con un po’ di biancheria pulita e i miei
appunti personali. Un romanzo di Onetti mi ha fatto compagnia durante
il volo per Buenos Aires, dove sono rimasto mezza giornata per vedere
degli amici. Per attraversare la foce del fiume, poi, ho viaggiato
sul ferry, l’acqua odorava di spaghetti con le vongole: Napoli e i
suoi sapori vivono dentro di me, sebbene sia nato in una famiglia di
emigranti e viva lontano dall’Italia da molti anni ormai...
Rimanere qui per un po’
era indispensabile. Non potrei ambientare una storia in un posto che
non ho visto con i miei occhi, mi sembrerebbe di prendere per il culo
i lettori e me stesso. Per questo sono partito e ho lavorato notte e
giorno, di notte scrivendo il saggio e di giorno camminando e
prendendo appunti in questa splendida città degli opposti.
Ciò che mi ha
inorgoglito di più è stato l’appoggio dell’editore Cosimo Lupo,
una persona eccezionale, e della filosofa e sindaco Ada Fiore, i
quali, senza neanche sapere come sarebbe andata, hanno da subito
sostenuto il mio progetto. Per la prima volta da quando vivo
all’estero, ho sentito di partire assieme a qualcuno e non più da
solo.
Arrivato a Montevideo,
dopo aver trovato una stanza economica in un appartamento di calle
Canelones, mi sono messo la camicia pulita e sono andato in Plaza de
la Independencia, non dormivo da due giorni.
La cosiddetta Torre
Ejecutiva è un edificio di vetro in cui si riflette lo storico
Palacio Salvo: davanti all’ingresso, ho aspettato qualche minuto
prima di entrare per convincermi che non stavo sognando.
All’accettazione ho
spiegato chi ero e che cosa ci facevo lì, mi hanno guardato prima
con tenerezza perché non credevano che arrivassi dalla Francia senza
un appuntamento, poi mi hanno dato un tesserino per entrare e
chiedere della segretaria, Cristina, al livello meno uno. Quando sono
entrato nella segreteria del Presidente per mostrargli il mio
dossier, mi sentivo un uomo nuovo, e utile. Sentivo che ciò che
stavo facendo aveva finalmente un senso, come quello che cerco
costantemente nei miei romanzi.
Ho fatto appello a tutte
le mie capacità persuasive, cercando di essere diretto, chiaro e
onesto; avevo la voce sicura perché quella la impari parlando con la
gente, ma sotto i pantaloni nessuno vedeva che mi tremavano le
ginocchia; già soltanto essere ascoltato da una segreteria del
Presidente della Repubblica mi sembrava surreale, qualcosa che né
nel mio paese né in Francia sarebbe stato possibile.
La segretaria, gentile e
divertente personaggio da romanzo, aveva una delle più provocanti
scollature mai viste in vita mia, ma a me non importava nulla! Ero
diventato un produttore di parole, asessuato, e pensavo soltanto alla
mia idea folle. La bella Cristina mi ha dato un numero di telefono
diretto per le prossime comunicazioni, come se mi stesse dando il
numero del salumiere Tonino, e ha assegnato un codice di protocollo
alla mia pratica. Mentre spiegavo il progetto e lei mi sorrideva e mi
rispondeva dandomi del Tu, mi ripetevo: ce l'hai fatta Frank. Per
loro va bene, il progetto è un bel progetto. Entro mercoledì avrò
la risposta definitiva di José Mujica in persona! E presto vi
racconterò come è andata...
Riguardo alla città
Qui c’è una strana
accoppiata di miseria e sofferenza, ma la seconda non è causata
dalla prima come succede in molti paesi realmente poveri. Sto girando
molto da quando sono arrivato, non riesco a dormire per l'eccitazione
di scoprire un nuovo posto, ho parlato con un sacco di gente, giovani
e vecchi, tutti felici di darmi informazioni utili, e sto prendendo
gli appunti che mi mancavano per il saggio sulla felicità. Lo
distribuiremo nelle scuole italiane, racconto alla gente, e tutti mi
sorridono come si sorride a chi fa del bene senza chiedere nulla in
cambio.
C'è molta povera gente
che va in giro con vere e proprie pezze addosso, e anche quelli che
lavorano sembrano passarsela abbastanza male, non ho visto nessuno
che indossasse una camicia stirata o un paio di scarpe nuove. Nei
quartieri poveri vicino al porto ho incontrato dei bambini con gli
stracci addosso che giocavano con un pallone di pezza. Neanche uno di
gomma, mi sono detto, proprio di pezza! Non sono riuscito a guardarli
negli occhi, erano occhi da adulto, non ridevano mentre giocavano.
Le ragazze sono
bellissime, dei corpi che sembrano fatti con la cera, e quanto più
sono povere tanto più sono belle, ma non mi dilungherò su questo
argomento, giacché perderei la mia obiettività.
Ho cercato il bar in cui
ambientare il testo, tutti mi sembravano i classici baretti scuri e
sporchi come quelli in cui mangiavo quando vivevo in Spagna da
ragazzino, ma nessuno aveva la cornice adatta. Mia madre è
venezuelana, dicevo alla gente, sono tornato in Sudamerica dopo
trentadue anni per scrivere un saggio sulla felicità.
Poi, alle spalle di Plaza
de España, all’angolo di un vecchio edificio proprio di fronte
alla Rambla, ho visto una caffetteria, aveva la piazza verde da un
lato e il mare dall’altro. Mi ci sono seduto per riposare le spalle
e la testa. Mi piaceva perché mi ricordava il mio bar-ufficio in
Place Garibaldi, vicino casa mia, a Nice.
La cosa buffa è che
quando ho chiesto informazioni su Mujca a due signore che mangiavano
pechuga rellena accanto a me, queste mi hanno risposto: el Pepe? lui
pranza proprio in questo bar, tutti i giorni...
Nelle aiuole, invece dei
colombi, ci sono i pappagalli, le loro urla tengono svegli cani e
cavalli a tutte le ore. E gli operai chileni davanti agli edifici in
costruzione, nella pausa pranzo si siedono sul bordo del marciapiede
e preparano la carne su una brace improvvisata invece del solito
panino con la mortadella.
Il lungomare, la Rambla,
ha qualcosa di selvaggio, nella sua semplicità è indomabile, di
pietra rossa, come quella di un bastione alto sul mare e
inattaccabile. L’acqua del Rio de la Plata è marrone, ma non
perché sia sporca, piuttosto perché sembra brulicare di vita,
agitare tutto ciò che le sta dentro. Mi ricorda una parte del porto
di Marsiglia, il Panier, ma questo è solo un ricordo mio, non
c’entra nulla con Montevideo.
Mi piace il fatto che
nessuno indossi vestiti puliti, mi consola sapere che ho fatto bene a
partire con un solo paio di jeans e mi sentirò meno straniero, ma
per quello basta bere il mate.
Domani andrò nel Rincón
del Cerro, il quartiere povero in cui vive el Pepe (come lo chiamano
qui). Ho incontrato qualcuno che mi ci può portare in macchina.
Conosco il proprietario del Bar del Rancho, il signor Barel, mi ha
detto, el Pepe mangia lì quando è libero, se chiedi di lui il
signor Barel ti ci porta subito dal Pepe!
Mi spaventano i due
eccessi della città, le ragazze sottili e ipnotizzanti che sfilano
con la naturalezza delle uruguayane e mi fanno sbagliare strada; le
signore obese che dondolano sulle carrette tirate dai somari mal
nutriti, e si fermano di bidone in bidone per cercare plastica e
bottiglie; i grattacieli costruiti apposta per i turisti americani,
quelli, che sembrano portarseli appresso i loro grattacieli; le
capanne fatte di lamiere azzurre e rosse; questi operai che
arrostiscono parrillas dappertutto; e gli uomini e le donne soli,
seduti sui marciapiedi con il thermos per il mate sotto il braccio
che gli fa compagnia...
Frank è sempre un piacere leggerti! In bocca al lupo per il tuo viaggio...
RispondiEliminaGrazie Manuela. Continua a seguirci!
EliminaGrazie Manu!
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