Cari lettori,
oggi condividiamo con voi delle osservazioni di Frank: continuate a seguire la sua ricerca della felicità!
5
maggio – Osservazioni superflue
Ero
di nuovo in quella città degli opposti, solo per ritirare un pezzo
di carta del quale io avrei fatto anche a meno. Avevano registrato il
saggio in spagnolo presso il registro nazionale e mi era costato
cinquecentoquarantaquattro pesos – circa trentacinquemila lire –
insieme al mio nome, che nell'elenco degli autori uruguaiani sembrava
un po' fuori posto. Non sapevano neanche scriverlo il mio nome,
sostituivano sempre qualche vocale; le lettere a Montevideo avevano
il valore dei numeri della tombola.
Alla
stazione degli autobus di Tres Cruces vidi una ragazza, aveva
stampato in faccia che veniva dai cantegriles;
mi passò davanti, così vicino da sentire l'odore della miseria che
si portava addosso, aveva un bambino in braccio, lo teneva come uno
straccio vecchio della cucina, la testa sembrava un grappolo d'uva
che pendeva dal ramo mentre guardava il cielo azzurro e nuvoloso; non
piangeva e non rideva. A pochi mesi – mi chiedevo – i bambini non
capiscono nulla dei colori e delle nuvole! Avrei dovuto farmi i fatti
miei, invece le feci un cenno, indicai la testa di suo figlio,
sembrava che si spezzasse da un momento all'altro!, ma lei mi insultò
in dialetto e maledisse il giorno della mia nascita e altri dettagli
riguardanti mia madre e la mia famiglia. Bentornato a Montevideo!, mi
dissi.
El
Centro de
documentación
nacional era ancora
chiuso; arrivano tutti verso le dieci, mi disse il custode. Soltanto
lui, che era anziano e aveva l'abitudine di svegliarsi presto come
succede a quelli della sua età, era puntuale alle nove, che era
l'orario di apertura ufficiale, quello affisso all'ingresso. Lo avevo
immaginato, ma non potevo permettermi di giudicare i loro ritardi:
può darsi che, per uno strano caso, tutti i figli degli impiegati
della biblioteca nazionale avessero avuto problemi al pancino quella
mattina e avessero costretto i genitori ad aspettarli già pronti con
il loro thermos caldo sotto il braccio e la macchina accesa. Tutto
può succedere, per cui è sempre meglio pensarci due volte prima di
imprecare davanti a una porta chiusa: non si può mai sapere quale
storia ci sia dietro a una porta.
Nei
corridoi del piano terra c'erano i ritratti degli uomini illustri di
Montevideo, a decine, e un paio di donne illustri, anche nei quadri
l'Uruguay era un Paese maschilista; c'era chiunque, il secolo scorso
bastava che ti distinguessi in qualche in qualche campo e finivi
appeso a quelle pareti. Forse per molti di loro il quadro era già
pronto prima che morissero, bisognava soltanto aggiungere la seconda
data. Il mio preferito era Horacio Quiroga, 1878 – 1937, autore di
storie d'amore, di morte e di follia, barba e capelli lunghi e folti,
morto suicida a Buenos Aires, maledetto in vita come i protagonisti
dei suoi racconti, che avevo letto e amato come si legge e si ama una
donna piena di silenzi e sfuggente quando le parli di futuro. I suoi
occhi erano tristi e saggi come tutti i morti, ma anche sereni come
se al momento dello scatto già sapessero di possedere qualcosa di
eterno e, senza volerlo, trasmettessero a noi, per fortuna ancora
vivi, quel sentimento di pace che si sarebbero guadagnati.
Il
rumore del traffico su 18 de Julio – che tutti chiamavano Diez
y ocho, e basta –
mi ricordava Napoli, ma un migliaio di altre cose in quel Paese, cose
che non andavano per niente bene, mi ricordavano Napoli e le ragioni
per cui l'avevo lasciata: adesso ripensavo alla pizza e agli
spaghetti con le vongole, le due cose che mi mancavano di più, ma a
nient'altro, e non sapevo se sentirmi in colpa o se ritenermi
privilegiato perché non appartenevo più a nessun posto e mi piaceva
pensare che la mia casa fosse nei libri.
Due
impiegati davanti all'ascensore parlavano di una legge promulgata in
Uruguay da qualche tempo, una legge secondo la quale la
responsabilità penale in un luogo di lavoro era dei dirigenti e
quindi, in caso di incidenti, questi erano passibili di denuncia.
Quella mattina era successo qualcosa in un ufficio dell'Intendencia
– il Comune –
dove un impiegato, che aveva denunciato quattordici volte lo stato
disastrato del proprio posto di lavoro, era caduto e, per di più,
era morto! In quel caso, il responsabile era il Sindaco; ma come si
fa a arrestare il sindaco?, si chiedeva la gente davanti agli
ascensori. E in effetti, adesso che ci ripenso, non arrestarono
nessuno.
Mi
sembrava di rivedere la parte peggiore del mio Paese e la rivedevo
nelle vetrate sporche della sala lettura. Anche quella ancora chiusa.
Insomma, qui non funziona nulla!, avrei voluto urlare, ero un po'
esasperato quella mattina, per nessuna ragione grave, soltanto perché
ogni tanto giocavo a arrabbiarmi, giacché non sapevo arrabbiarmi sul
serio: tacqui comunque, perché sarebbe stato troppo facile
prendersela con il sistema e non ammettere le proprie colpe.
Cos'altro potevo fare, caro Cosimo! Queste note oggi sono dedicate a
te: so che contavate su di me, ma temo che, in quel viaggio di tanto
tempo fa, non avremmo potuto ottenere più di quello che avevo in
mano, quel foglio che, appena uscito, ti mandai per fax e che abbiamo
custodito in questi anni per mostrarlo a tutti coloro che volevano
sapere. A quelli che, invece, credevano di sapere già tutto, non ho
nulla da raccontare.
Mi
ricordo che quel giorno incontrai gente rara, persone che presto o
tardi avrei messo in un romanzo, era così che funzionava,
osservazioni superflue, avrei vissuto molto meglio finora senza
perdermi nei loro mondi strani, sarei meno grasso e non avrei questi
dolori dappertutto... Il custode della biblioteca parlava trascinando
le parole una dentro l'altra, aveva baffi folti e capelli bianchi
spettinati. Strisciava i piedi come se portasse le pantofole, piedi e
parole trascinati insieme. Io qui sono l'anfitrione, mi disse, e mi
lasciò passare per primo, percorremmo insieme il corridoio con i
ritratti, gli uffici erano vuoti, i cestini per le cartacce erano
tutti in fila davanti alle porte, appena svuotati, pronti per essere
riempiti di nuovo, aspettavano, avevano la pazienza tipica degli
oggetti. Quanti anni ha?, chiesi all'anfitrione. Oggi ne compio
sessantanove! Allora, buon compleanno. E lei, che cosa porta in
questa cartella? I miei appunti e altre carte, anche una fotografia.
Lei è un poeta? Io?, no, non credo. E che cos'è, allora? Non lo so,
non mi piace dare una definizione alla gente. Ma
è qui per
registrare una poesia! No, si tratta di un saggio sulla felicità,
risposi. Si aquí
dentro Usted lleva una poesía,
le deseo mucho éxito
a partir de este día,
mi disse. Era l'ultimo giorno in quella città di pazzi e, non solo
avevo incontrato l'unica persona che mi aveva dato del Lei, ma mi
aveva anche detto qualcosa che avrei sempre ricordato.
Sulle
sedie accanto al distributore del caffè c'erano uomini soli con le
facce tristi che guardavano nel nulla e giocavano con le monete;
dalla sala studio arrivavano le voci basse dei ragazzi che mi
ricordarono i tempi dell'università. Mentre uscivo dalla biblioteca
con i miei fogli in mano, sentivo che stavo uscendo da Montevideo.
Ripensavo alle immagini che avevo visto in quei due mesi – non in
centro; del centro non m'importava nulla! – e che avrei descritto
appena ritrovata la tranquillità e l'anonimato necessari: gli odori
di cui tutti parlano e la puzza che non descrive nessuno; avrei
parlato di tutto ciò che c'era di sbagliato in quel Paese, della
miseria che si vedeva e si sentiva da lontano in tre quarti della
città, perché quello che in televisione non si può vedere è il
fetore della plastica bruciata al sole, nelle cloache che correvano
ai lati della strada, piene di immondizia. Fuori dal centro non
esistevano le fogne, la gente aveva il proprio pozzo davanti alla
casa. Io volevo prendermela con il sistema, perché non riuscivo a
spiegarmi come fosse possibile che in quelle stesse baracche ogni
famiglia avesse IPhone e televisori al plasma: perché rinunciavano a
mangiare e a tenere puliti i propri bambini e si indebitavano per
tutta la vita presso gli istituti di credito che abbondavano lungo
Diez y ocho
e nei centri commerciali? E perché nessuno parlava della puzza che
c'era in quella città?
Eda
Simeone, la protagonista del romanzo che avrei scritto una volta
tornato a casa, diceva sempre: la miseria puzza, non importa se qui o
in un altro Paese più alla moda quando si parla di terzo mondo e si
gioca con la pietà di chi guarda la tv; la puzza della miseria, caro
Francisco, è uguale dappertutto.
Meraviglioso!
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