venerdì 9 maggio 2014

Dal diario di Frank Iodice: 7 maggio 2014

7 maggio – Pinguini in Uruguay

Ieri sera a quest'ora ero nel Tasende, un locale storico di Montevideo, dove c'è la famosa statua di ferro del Quijote, e mangiavo muzzarela, figazza e tachos, un grosso pezzo di formaggio fuso con uno strato di roquefort – specialità della casa – insieme a Henry, l'unica persona seria in quella città di pazzi, un fisico, potevi chiedergli quello che volevi, perché la luna è rossa, o come sono fatti gli occhi; e adesso sto mangiando uno schifoso chivito senza maionese in una rosticceria di Colonia, che puzza di frittura e marijuana. In un televisore piatto, appeso alla parete come un quadro, vale a dire, con corda e chiodi, c'è un documentario sui pinguini: a me i pinguini fanno paura perché hanno gli occhi piccolissimi e incolore, e non si capisce che cosa hanno in mente.

Domani vorrei prendere qualche foto del barrio vecchio, dicono che è la parte più antica dell'Uruguay; c'è anche la chiesa più antica dell'Uruguay, ma lì non ci posso andare perché la vista di tutto quell'oro sprecato e di quei marmi preziosi - soprattutto se ripenso ai mattoni e alle lamiere con cui erano costruite le baracche nei cantegriles di General Flores e Casavalle - mi fa più paura dei pinguini.

In questo paesino tutto è pulito, non assomiglia per niente a Montevideo, sembra di essere in un altro continente, dall'altro lato del pianeta, e ci sono pochi cani randagi: qualcuno deve averli cacciati perché qui è pieno di turisti e, ai turisti, i cani randagi forse fanno paura come a me i pinguini. A ognuno, in fondo, fa paura quello che gli pare.

Oggi, comunque, quando ho lasciato la casa di calle Canelones, il mio amico Henry mi ha salutato senza guardarmi, ha sollevato una mano a un certo punto e gli si sono spostati gli occhiali, non gli era mai successo, poi ci siamo abbracciati, gli addii sono così, ci si abbraccia e ci si aggiustano gli occhiali senza mostrare quel rossore che, dopotutto, è naturale quando saluti qualcuno con cui hai condiviso due mesi intensi di parrillas e risate. Alla fine, sono fortunato perché in Uruguay ho incontrato persone interessanti e stretto legami solidi, come quelli che stringi in nave con i compagni di cabina.

Mi vedo costretto ad aggiungere un ultimo paragrafo per dare un senso a questa pagina e dire qualcosa di utile, e parlarvi di un'altra legge pittoresca di questo paese. Oggi mi domandavo come facessero i disabili a muoversi lungo i marciapiedi, giacché per la maggior parte sono distrutti e si adattano alla forma irregolare delle grosse radici dei platani. Il cameriere mi ha spiegato: la responsabilità è dei cittadini, ognuno deve riparare e tenere pulita la parte di marciapiede davanti alla propria casa! Ma poi ha aggiunto: quando l'Intendencia ti scrive una lettera d'amore in cui ti invita a effettuare i lavori di manutenzione, tu devi strapparla e sputarci sopra...

Sul muro della rosticceria ci sono le targhe di tutto il mondo; se le guardo per un po', sarà come fare un viaggio gratis...



Cari lettori,
ecco le foto che Frank ci invia da Colonia:





martedì 6 maggio 2014

Dal diario di Frank Iodice: 5 maggio 2014

Cari lettori,
oggi condividiamo con voi delle osservazioni di Frank: continuate a seguire la sua ricerca della felicità!

5 maggio – Osservazioni superflue

Ero di nuovo in quella città degli opposti, solo per ritirare un pezzo di carta del quale io avrei fatto anche a meno. Avevano registrato il saggio in spagnolo presso il registro nazionale e mi era costato cinquecentoquarantaquattro pesos – circa trentacinquemila lire – insieme al mio nome, che nell'elenco degli autori uruguaiani sembrava un po' fuori posto. Non sapevano neanche scriverlo il mio nome, sostituivano sempre qualche vocale; le lettere a Montevideo avevano il valore dei numeri della tombola.
Alla stazione degli autobus di Tres Cruces vidi una ragazza, aveva stampato in faccia che veniva dai cantegriles; mi passò davanti, così vicino da sentire l'odore della miseria che si portava addosso, aveva un bambino in braccio, lo teneva come uno straccio vecchio della cucina, la testa sembrava un grappolo d'uva che pendeva dal ramo mentre guardava il cielo azzurro e nuvoloso; non piangeva e non rideva. A pochi mesi – mi chiedevo – i bambini non capiscono nulla dei colori e delle nuvole! Avrei dovuto farmi i fatti miei, invece le feci un cenno, indicai la testa di suo figlio, sembrava che si spezzasse da un momento all'altro!, ma lei mi insultò in dialetto e maledisse il giorno della mia nascita e altri dettagli riguardanti mia madre e la mia famiglia. Bentornato a Montevideo!, mi dissi.
El Centro de documentación nacional era ancora chiuso; arrivano tutti verso le dieci, mi disse il custode. Soltanto lui, che era anziano e aveva l'abitudine di svegliarsi presto come succede a quelli della sua età, era puntuale alle nove, che era l'orario di apertura ufficiale, quello affisso all'ingresso. Lo avevo immaginato, ma non potevo permettermi di giudicare i loro ritardi: può darsi che, per uno strano caso, tutti i figli degli impiegati della biblioteca nazionale avessero avuto problemi al pancino quella mattina e avessero costretto i genitori ad aspettarli già pronti con il loro thermos caldo sotto il braccio e la macchina accesa. Tutto può succedere, per cui è sempre meglio pensarci due volte prima di imprecare davanti a una porta chiusa: non si può mai sapere quale storia ci sia dietro a una porta.
Nei corridoi del piano terra c'erano i ritratti degli uomini illustri di Montevideo, a decine, e un paio di donne illustri, anche nei quadri l'Uruguay era un Paese maschilista; c'era chiunque, il secolo scorso bastava che ti distinguessi in qualche in qualche campo e finivi appeso a quelle pareti. Forse per molti di loro il quadro era già pronto prima che morissero, bisognava soltanto aggiungere la seconda data. Il mio preferito era Horacio Quiroga, 1878 – 1937, autore di storie d'amore, di morte e di follia, barba e capelli lunghi e folti, morto suicida a Buenos Aires, maledetto in vita come i protagonisti dei suoi racconti, che avevo letto e amato come si legge e si ama una donna piena di silenzi e sfuggente quando le parli di futuro. I suoi occhi erano tristi e saggi come tutti i morti, ma anche sereni come se al momento dello scatto già sapessero di possedere qualcosa di eterno e, senza volerlo, trasmettessero a noi, per fortuna ancora vivi, quel sentimento di pace che si sarebbero guadagnati.
Il rumore del traffico su 18 de Julio – che tutti chiamavano Diez y ocho, e basta – mi ricordava Napoli, ma un migliaio di altre cose in quel Paese, cose che non andavano per niente bene, mi ricordavano Napoli e le ragioni per cui l'avevo lasciata: adesso ripensavo alla pizza e agli spaghetti con le vongole, le due cose che mi mancavano di più, ma a nient'altro, e non sapevo se sentirmi in colpa o se ritenermi privilegiato perché non appartenevo più a nessun posto e mi piaceva pensare che la mia casa fosse nei libri.
Due impiegati davanti all'ascensore parlavano di una legge promulgata in Uruguay da qualche tempo, una legge secondo la quale la responsabilità penale in un luogo di lavoro era dei dirigenti e quindi, in caso di incidenti, questi erano passibili di denuncia. Quella mattina era successo qualcosa in un ufficio dell'Intendencia – il Comune – dove un impiegato, che aveva denunciato quattordici volte lo stato disastrato del proprio posto di lavoro, era caduto e, per di più, era morto! In quel caso, il responsabile era il Sindaco; ma come si fa a arrestare il sindaco?, si chiedeva la gente davanti agli ascensori. E in effetti, adesso che ci ripenso, non arrestarono nessuno.
Mi sembrava di rivedere la parte peggiore del mio Paese e la rivedevo nelle vetrate sporche della sala lettura. Anche quella ancora chiusa. Insomma, qui non funziona nulla!, avrei voluto urlare, ero un po' esasperato quella mattina, per nessuna ragione grave, soltanto perché ogni tanto giocavo a arrabbiarmi, giacché non sapevo arrabbiarmi sul serio: tacqui comunque, perché sarebbe stato troppo facile prendersela con il sistema e non ammettere le proprie colpe. Cos'altro potevo fare, caro Cosimo! Queste note oggi sono dedicate a te: so che contavate su di me, ma temo che, in quel viaggio di tanto tempo fa, non avremmo potuto ottenere più di quello che avevo in mano, quel foglio che, appena uscito, ti mandai per fax e che abbiamo custodito in questi anni per mostrarlo a tutti coloro che volevano sapere. A quelli che, invece, credevano di sapere già tutto, non ho nulla da raccontare.
Mi ricordo che quel giorno incontrai gente rara, persone che presto o tardi avrei messo in un romanzo, era così che funzionava, osservazioni superflue, avrei vissuto molto meglio finora senza perdermi nei loro mondi strani, sarei meno grasso e non avrei questi dolori dappertutto... Il custode della biblioteca parlava trascinando le parole una dentro l'altra, aveva baffi folti e capelli bianchi spettinati. Strisciava i piedi come se portasse le pantofole, piedi e parole trascinati insieme. Io qui sono l'anfitrione, mi disse, e mi lasciò passare per primo, percorremmo insieme il corridoio con i ritratti, gli uffici erano vuoti, i cestini per le cartacce erano tutti in fila davanti alle porte, appena svuotati, pronti per essere riempiti di nuovo, aspettavano, avevano la pazienza tipica degli oggetti. Quanti anni ha?, chiesi all'anfitrione. Oggi ne compio sessantanove! Allora, buon compleanno. E lei, che cosa porta in questa cartella? I miei appunti e altre carte, anche una fotografia. Lei è un poeta? Io?, no, non credo. E che cos'è, allora? Non lo so, non mi piace dare una definizione alla gente. Ma è qui per registrare una poesia! No, si tratta di un saggio sulla felicità, risposi. Si aquí dentro Usted lleva una poesía, le deseo mucho éxito a partir de este día, mi disse. Era l'ultimo giorno in quella città di pazzi e, non solo avevo incontrato l'unica persona che mi aveva dato del Lei, ma mi aveva anche detto qualcosa che avrei sempre ricordato.
Sulle sedie accanto al distributore del caffè c'erano uomini soli con le facce tristi che guardavano nel nulla e giocavano con le monete; dalla sala studio arrivavano le voci basse dei ragazzi che mi ricordarono i tempi dell'università. Mentre uscivo dalla biblioteca con i miei fogli in mano, sentivo che stavo uscendo da Montevideo. Ripensavo alle immagini che avevo visto in quei due mesi – non in centro; del centro non m'importava nulla! – e che avrei descritto appena ritrovata la tranquillità e l'anonimato necessari: gli odori di cui tutti parlano e la puzza che non descrive nessuno; avrei parlato di tutto ciò che c'era di sbagliato in quel Paese, della miseria che si vedeva e si sentiva da lontano in tre quarti della città, perché quello che in televisione non si può vedere è il fetore della plastica bruciata al sole, nelle cloache che correvano ai lati della strada, piene di immondizia. Fuori dal centro non esistevano le fogne, la gente aveva il proprio pozzo davanti alla casa. Io volevo prendermela con il sistema, perché non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che in quelle stesse baracche ogni famiglia avesse IPhone e televisori al plasma: perché rinunciavano a mangiare e a tenere puliti i propri bambini e si indebitavano per tutta la vita presso gli istituti di credito che abbondavano lungo Diez y ocho e nei centri commerciali? E perché nessuno parlava della puzza che c'era in quella città?
Eda Simeone, la protagonista del romanzo che avrei scritto una volta tornato a casa, diceva sempre: la miseria puzza, non importa se qui o in un altro Paese più alla moda quando si parla di terzo mondo e si gioca con la pietà di chi guarda la tv; la puzza della miseria, caro Francisco, è uguale dappertutto.

domenica 4 maggio 2014

Dal diario di Frank Iodice: 3 maggio 2014

3 maggio – Los pájaros perdidos

Cara Redazione Lupo e cari lettori, stamattina vi scrivo da Colonia del Sacramento, un paesino pittoresco dal quale partono i traghetti per Buenos Aires; se la macchina fotografica compatta che mi ero procurato non fosse morta per cause naturali e non stessi imprecando contro me stesso allo specchio da almeno un'ora perché non ho portato con me la reflex che adesso dovrebbe essere in Francia, ad Antibes, a casa di mio fratello se non mi sbaglio, vi manderei anche una foto. Sto andando a cercare un caricabatteria: se lo trovo, vi manderò qualche foto oggi pomeriggio. Nel frattempo, ne approfitto per raccontarvi una cosa.
Prima stavo ripensando alle lenzuola pulite di casa mia e al caffè caldo insieme alla mia Anisetta, sul nostro divano da giardino con il quale abbiamo arredato la sala del modesto bilocale preso in affitto insieme un anno e mezzo fa. Questi pensieri sdolcinati mi vengono in mente sempre quando sono in un letto scomodo o quando bevo un caffè schifoso che sa di scarico della toilette, ma, come diceva sempre mia nonna, quando non hai con chi andare a letto ci vai con l'asina. Credo che, per la nonna, l'asina rappresentasse il prototipo di donna brutta, se immagino una fidanzata asina per esempio, con le orecchie grandi e i peli dappertutto, ma anche la metafora per una situazione difficile nella quale devi trovare sempre il lato positivo. In ogni proverbio, alla fine, ognuno può trovarci quello che gli pare, basta un po' di fantasia e magari un caffè migliore di questo che ho davanti e che non riuscirò a finire neanche se lo riempio di zucchero e cannella: la cannella è ottima per prevenire il diabete.
A farmi ritrovare il buon umore, come sempre, è stata la mia Anisetta, che – come vi ho già detto – non si chiama proprio Anisetta, ma in queste note ho deciso di chiamarla così, come la protagonista di uno dei miei romanzi; lei mi telefona sempre verso le sette, al massimo alle sette e mezza – ora locale – per verificare che io non abbia trascorso la notte nel letto di un'altra Anisetta, oppure per darmi il buongiorno prima di chiunque altro e non interrompere un'abitudine acquistata durante la convivenza nel nostro bilocale che affaccia sul campo di bocce di place Arson, a Nizza, dove organizzano i tornei degli ultra-sessantenni cui non puoi partecipare se sei under-sessantenne. Ogni volta che mi affaccio, mi viene voglia di essere ultra-sessantenne e diventare un campione di bocce: hanno persino la calamita recupera-boccia attaccata a una catenella che assomiglia a un antico orologio da taschino e che serve a non abbassarsi dopo ogni giocata!
Aspetta che mi alzo, ho detto alla mia dolce Anisetta, non vorrei svegliare la mia fidanzata uruguaiana. Bene, fai piano allora, perché quando torni a letto la troverai stecchita la tua fidanzata uruguaiana!, lei è consapevole di quello che sta rischiando, vero?
Ecco, più o meno le nostre conversazioni sono sempre così, ci prendiamo in giro per tutto il tempo, smettiamo soltanto per fare altre cose che non si possono raccontare in queste caste note di viaggio altrimenti l'editore non me le pubblicherebbe; ma mi piace – mentre cerco di distendere un po' la schiena per rimediare a queste notti orrende sui disastrati letti sudamericani – ricordare le mie conversazioni con Anisetta. Oppure le nostre lettere d'addio. Quando esco, per esempio, le lascio sempre una lettera di addio, a volte soltanto un messaggino di addio, ma sempre dello stesso genere, e lei fa lo stesso, ci divertiamo come matti a scrivere cose di questo genere: mia adorata, questa volta è vero, non piangere ti prego, ma non poteva continuare così!, oggi partirò, andrò lontano, verso il nord con la prima corriera, no, non cercare di fermarmi, sarebbe troppo triste e renderesti le cose ancora più difficili, oh, amore mio, addio, addio per sempre!
A proposito, quasi dimenticavo la ragione per la quale avevo incominciato a scrivere questa nota: stamattina ho ricevuto anche un'altra telefonata, dopo il consueto controllo coniugale, una telefonata in cui grosso modo mi annunciavano che il testo del nostro saggio sulla felicità è stato registrato presso la biblioteca nazionale e adesso ha anche un codice ISBN, per cui mi toccherà fare di nuovo un salto a Montevideo prima di ripartire definitivamente per Buenos Aires. Mentre l'impiegato della biblioteca mi comunicava che la documentazione era pronta per essere ritirata, si sentivano le note di Pájaros perdidos, musica di Astor Piazzolla, parole di Mario Trejo: 

Vuelven de nuevo los recuerdos, las horas jóvenes que dí,
y desde el mar llega un fantasma hecho de cosas que perdí...

A me, comunque, ha fatto più piacere la prima telefonata...



sabato 3 maggio 2014

Recensione: Parigi solo andata (Alice Guerrieri)

Parigi solo andata di Alice Guerrieri: recensione pubblicata su Recensionilibri.

Egregio Editore vi presenta:

LE AVVENTURE FRANCESI DI LISA, “CERVELLO IN FUGA” ALL’ESTERO


Inviato da Krauss il mag 3, 2014

Je m’appelle Lisa, je suis une italienne… 
Basta rispondere a un annuncio per ritrovarsi, fresca di studi universitari, critico d’arte in prova in una nota rivista francese? Strano ma vero, è stato sufficiente per fare un bel salto dai giornaletti di classe nel Salento a Le petit journal des Artes, Parigi. Perché proprio lei, però? E solo con una mail? Comunque, l’occasione è da prendere al volo, in “Parigi solo andata”, di Alice Guerrieri, Lupo editore (Copertino di Lecce, dicembre 2013, 238 pag. 15 euro).
Via dall’Italia, lontano dalle paturnie sentimentali dell’amica di sempre, alla larga dalla storia “stanca e annoiata” con Alberto. Destinazione la Ville Lumiere. Fantastico. Lo sarebbe di certo, se qualche luce riuscisse a illuminare il quartiere che ospita il suo monolocale. Non c’è traccia dei bagliori e lustrini di una capitale del mondo, invece, intorno alla “pseudotopaia” che accoglie la neo giornalista. Si ritrova in un minuscolo salotto o forse cucina, al secondo piano di una palazzina un po’ scalcagnata, caratteristica dello stile popolare francese. Unica consolazione, un piatto di pasta, improbabile ma generoso. Lo trova nel fornetto, sdraiato in una teglia, accompagnato da un biglietto: “Forse hai nostalgia dell’Italia”. La cottura è più che al dente, gli ingredienti sono decisamente troppi, senape compresa, ma ingerito a digiuno è più che apprezzabile l’omaggio di una nuova collega, Marion. E questo conduce all’universo del giornale, in Place de la Nation. Settimo piano, ascensore guasto, un microcosmo popolato da una fauna di tipi e soprattutto tipe speciali, una più dell’altra, a cominciare da Elle, la direttrice, intellettuale col piglio da sergente della Legione. I maschietti sono un capitolo a parte, anche nella vita privata di Lisa Baldini. Il caporedattore, Jacques, è robusto, logorroico, alterna fasi di depressione a momenti da gran viveur. Ma a lei va a genio. Come Philippe, direttore editoriale, alto, flemmatico, elegante, anche se un pizzico demodé col suo guardaroba da vecchio conte scozzese. Si lega anche a lui.
Bistrot, bois, brasserie, baguette. Tutto sommato procede l’integrazione all’estero dell’ennesimo cervello italiano in fuga. A guastare l’idillio tutto cuore e lavoro, pur condito di difficoltà contingenti, interviene però una statuetta, un ricordino artistico di Roma, comprato su una bancarella, ma usato in modo improprio, sul cranio di un amico. Diventa l’arma di un delitto ed è un regalo che la la ragazza ha fatto proprio alla vittima e partner …Infatti, vira sul giallo la scoppiettante commedia, opera prima di una brillante pugliese. Altrimenti come potrebbe materializzarsi la figura del commissario Liguori? Niente a che fare col mitico Maigret della Suretè, Giuseppe è italiano, napoletanissimo, bravo, intelligente, simpaticamente tricolore e pur mettendo nel mirino la bella Lisa, aiuta la divertente autrice ad aggiungere dinamiche movimentate a un romanzo che scivola con grazia verso il noir, restando comunque rosa, in modo mai banale, fatti i debiti conti.
Alice Guerrieri, laureata in storia dell’arte, vive tra Otranto e Varese. Lettrice appassionata fin da bambina e scrittrice creativa, si interessa di arte, musica, cinema e fotografia.

sabato 26 aprile 2014

Dal diario di Frank Iodice: 25 aprile 2014

Ieri, nella sua nota di viaggio, Frank ci ha raccontato qualcosa in più riguardo al suo incontro con il Presidente.
Ecco le sue parole...

25 aprile – Riguardo al mio incontro con il Presidente

Mi rendo conto di non avervi detto molto riguardo al mio incontro con il Presidente Mujica, ne parleremo meglio dal vivo a fine giugno, quando rientrerò a Nizza e verrò a trovarvi nel Salento col primo volo disponibile.
Non posso fare a meno di descrivervi il suo sguardo, ero venuto qui quasi solo per quello, avevo bisogno di guardarlo negli occhi e stringergli la mano per dare un'anima al protagonista della mia storia. L'anima di un personaggio è qualcosa di vivo, non nasce sulla carta ma negli occhi della gente che incontri.
Quando l'ho visto uscire dal suo ufficio, ho pensato: quest'uomo non ha la faccia di un politico, gli altri politici che ho incontrato a Montevideo avevano quella faccetta mediocre che dimostrava in ogni suo lineamento una certa predisposizione a dare il proprio culo per un migliaio di voti in più. Lui, invece, mi ha dato l'impressione di non fregarsene nulla dei voti, come se essere lì gli piacesse ma non fosse disposto a dare in cambio nessuna parte del suo corpo. In televisione mi era sembrato un vecchietto dolce che raccontava le sue esperienze politiche e di vita, ma di persona era tutt'altro: un uomo carismatico, con occhi fermi e dolci e i movimenti lenti di chi conosce la vita.
Mi avevano avvisato che non aveva tempo da perdere con uno sconosciuto arrivato dall'Europa, perché, come me, ce n'erano almeno uno al giorno, il Presidente è una specie di star, mi avevano detto. Eppure io non ero un fan che voleva strappargli le mutande e farsi autografare il diario di Hello Kitty; mi è
bastato parlare con lui per cinque minuti, raccontargli che dietro le mie spalle c'era un intero paese che condivideva la sua filosofia di vita, e regalargli un libro di Seneca, quello che lui cita spesso, e che io avevo letto tanti anni fa, quando ancora non sapevo che un giorno lo avrei regalato a un presidente della repubblica.
Vi racconterò il resto dell'incontro di persona, adesso basta parlare del Presidente, dobbiamo occuparci della ricerca della felicità, e credo che ormai sia chiaro che l'incontro con Mujica non era l'epilogo di questa ricerca.

venerdì 25 aprile 2014

Dal diario di Frank Iodice: 22 e 23 aprile 2014

Quelle che seguono sono due note di viaggio di Frank: il suo viaggio continua e i suoi lettori aumentano a dismisura!

23 aprile – Il ministro ha detto no, ma noi abbiamo scritto il nostro saggio sulla felicità per la gente vera, quella che vive di emozioni, non per lui... E ci scusiamo se il titolo di questa nota è un po' lungo; anche se, per scusarci, è diventato ancora più lungo, però quello che importa è che abbiamo chiarito già nel titolo che del ministro e del ministero non ce ne importa un fico secco.

Come vi dicevo qualche giorno fa in un'altra nota, il testo in spagnolo è pressoché pronto, mentre quello in italiano necessita ancora un po' di tempo per raffreddarsi ed essere rivisto a casa, con calma, quando avrò digerito quest'intensa esperienza in Uruguay. Ciò nonostante, l'ho fatto leggere già ai miei amici più intimi e alla parte della famiglia che lo ha reputato interessante, e mi ha sorpreso una cosa che oggi voglio condividere con voi: la nostra ricerca della felicità coincide con la loro ricerca della felicità! Adesso, per esempio, vi faccio leggere un'email della mia cara amica Meli, che viveva a Nizza fino all'anno scorso e che forse rivedrò la settimana prossima a Buenos Aires: le sue parole mi hanno ricordato la ragione per cui ho scritto il saggio e tutti gli altri libri. Avevo appena parlato con la cara Maria, l'impiegata del MEC, che si era scusata per non avermi potuto aiutare, un testo scritto è troppo compromettente, mi aveva detto, quelli del sesto piano non vogliono responsabilità, e io le avevo spiegato che quella cavolo di dichiarazione l'aveva richiesta lei e che a me non importava nulla di quello che pensava il ministro, puoi tenere la copia aggiornata per te Maria-Adriana, non preoccuparti, le avevo detto, ti ringrazio Francisco, auguro il meglio a te e ai giovani pensatori del paese della filosofia per il vostro progetto sulla felicità, aveva risposto lei, quando mi è arrivata questa email della quale vi ho parlato. Le email sono così, arrivano sempre quando devono arrivare...

...Lo que estoy tratando de decir es que tu relato ha influenciado mucho mi historia personal. Es decir, ya hace tiempo, te diría desde que estaba en Niza, tengo ganas de trabajar de lo que realmente me gusta. Entonces es una idea y un sentimiento que tengo desde hace tiempo y ahora lo estoy poniendo en práctica. Y luego, llega tu ensayo, acerca de la felicidad y debo decir que cada linea que leí, se ha reflejado en cada idea que tengo en la cabeza, con respecto a la felicidad. Todos esos pensamientos sobre la felicidad que se han acumulado en mi cabeza desde hace años han sido leídos y reflejados en tu ensayo. Es como si toda esta idea que tenía la hubiese visto escrita por alguien que escribió acerca de esto. También he leído libros o he visto películas al respecto, pero tu ensayo me ha parecido un fragmento de sinceridad y de fiel relactación del asunto. Por lo tanto, ha sido un placer leerlo y te agradezco mucho que lo hayas compartido conmigo.


22 aprile – Riguardo al saggio sulla felicità

Recentemente ho incontrato un anziano scrittore di origini italiane, il signor Mario Bianchi – che non è un nome scelto a caso per mantenere l'anonimato, come succede per quelli che si chiamano Mario Rossi, ma è il suo vero nome – il quale ha fondato una specie di circolo di autori uruguaiani, uno di quei club in cui tutti parlano di letteratura togliendo del tempo prezioso alla letteratura stessa e finendo perciò per diventare degli esperti di testi che però non hanno più il tempo di scrivere. Questo al signor Mario Bianchi non gliel'ho detto perché non ne ho avuto l'occasione; in genere è meglio non offendere nessuno se non te lo chiede espressamente come, purtroppo, è abituata a fare molta gente a cui piace essere offesa e per questo ti obbliga a farlo quasi come se fosse un favore personale, così diventi uno che offende e non te ne rendi neanche conto, ti sembra quasi di essere uno che, al contrario, regala amore al mondo intero, sparge fiori sui viali con parole musicali, e invece stai offendendo i poveretti che hanno avuto la sfortuna di chiamarsi Mario Rossi e non, per esempio, Giuseppe Verdi, come il musicista, o Franco Neri, come l'attore del quale era segretamente innamorata mia nonna.
Il signor Bianchi, dunque, è uno scrittore, autore di numerosi testi, soprattutto di poesie, belle poesie, in spagnolo e in portoghese, ha lavorato a lungo a Buenos Aires e anche in Brasile. Se vi dovesse capitare di leggere un suo libro, adesso sapete che l'autore è un uomo vero e non si tratta di un anonimo sotto falso nome.
Il club del signor Bianchi è in una piccola sala all'interno di una stazione del tram in disuso, un posto caratteristico in cui si balla anche il tango e si mangia parrilla tutti i giorni tranne il lunedì, in calle San José. Dopo averlo conosciuto e aver parlato con lui delle poesie, che secondo me non dovrebbero avere il titolo e secondo lui sì, e che secondo me sono più belle se hanno almeno qualche rima e secondo lui no, ho pensato che forse non era il caso di fargli leggere il saggio sulla felicità, ma poi ho cambiato idea perché i libri si scrivono per farli leggere a tutti e non soltanto alla gente che ha i tuoi stessi gusti letterari. Domani gliene parlo, gli ho già detto che il testo in italiano sarà pubblicato dal mio editore e che abbiamo già un contratto, così non gli vengono strane idee. Quando ti fregano le idee – e a fregartele sono persino autori più vecchi e più affermati di te – impari a tutelarti. Ecco un consiglio che possiamo dare a chi decide di dedicare la sua vita a quest'attività. A quelli che invece scrivono per hobby non mi sento di dare nessun consiglio, anzi, vorrei che loro ne dessero a me perché non so proprio come si possa essere capaci di dividersi in due, avvocati e scrittori, ingegneri e scrittori, oppure medici e scrittori... Non vorrei divagare, ma aggiungo soltanto che li invidio a morte perché io non ci riuscirei.

Volevo parlare del saggio sulla felicità e mi sono perso nelle mie divagazioni sentimentali. Riguardo al saggio, vorrei rivelarvi che in realtà non si tratta di un vero saggio, io lo chiamo così e gli altri hanno incominciato a chiamarlo così per colpa mia, ma il testo è una fusione di alcune parole del Presidente Mujica, liberamente tradotte dallo spagnolo, e quelle dei due protagonisti della storia. Non posso rivelarvi di più, però vi prometto che presto ve lo faremo leggere...

giovedì 24 aprile 2014

Dal diario di Frank Iodice: 20 e 21 aprile 2014

21 aprile, mattina - “Io scrivo per ribellarmi e non per leccare i piedi ai burocrati”

Un autore di testi dovrebbe avere un'etica personale. La mia mi impone normalmente di non avere mai a che fare con i burocrati. Non so perché da due mesi a questa parte mi sia messo nelle loro mani per ottenere il permesso di utilizzare la filosofia di Mujica. Forse è stato il senso di responsabilità, il fatto che dietro di me ci fosse un paese intero, il paese della filosofia, il mio editore che mi assicurava un sostegno economico, oppure perché questa non sarà una vera e propria pubblicazione in quanto alcune frasi inserite nel testo non sono le mie ma del Presidente stesso.
Fatto sta che chi nasce tondo, come si suol dire, non muore quadrato... Poco fa ho avuto una piccola discussione con un impiegato del Ministero, il cui nome farò meglio a non rivelarvi, una discussione che è terminata con la frase che dà il titolo a questa nota e che adesso riporterò integralmente:
Mi hanno detto di passare dopo le feste per informarmi su una dichiarazione di interesse che apparentemente il Ministero dell'educazione vuole farmi accludere alla pubblicazione del saggio sulla felicità. La tua dichiarazione è qui, ecco cosa ti hanno scritto. Ma questo non è quello che mi hanno detto di persona l'ultima volta che sono venuto; siete stati voi a propormi una dichiarazione di interesse, per quanto mi riguarda volevo soltanto il permesso del Presidente di utilizzare alcune sue frasi. Non è abitudine del Ministero emettere dichiarazioni di interesse per pubblicazioni edite. Pubblicazione già significa che un testo è edito, non c'è bisogno di dire pubblicazione edita. Emettere una dichiarazione significherebbe avallare il contenuto della tua pubblicazione. Che cosa avete letto di tanto grave da farvi cambiare idea? Nulla, non è nostro compito giudicare le qualità letterarie del testo, inoltre, dato che si tratta di un saggio ispirato alla vita del signor Presidente, dovresti essere autorizzato da lui, e non mi sembra il caso. L'ultima volta che sono stato qui, la tua collega al primo piano ha parlato al telefono con la segreteria della presidenza e le hanno detto che potevo scrivere quello che volevo; inoltre la scorsa settimana ho incontrato anche il Presidente, guarda, ho persino una fotografia in cui siamo abbracciati! Lo hai intervistato? Perché avrei dovuto!, io non sono un giornalista, ognuno deve fare il suo mestiere; avevo solo bisogno di guardarlo negli occhi e stringergli la mano per dare un'anima al mio personaggio. E di cosa avete parlato, allora? Della felicità, una cosa a cui tu hai deciso di rinunciare quando ti sei messo la cravatta!, ma non preoccuparti, ho capito perché non mi darete il vostro consenso, è a causa dei racconti degli anziani, quelli che ho riportato integralmente!, questa si chiama censura! Ma quale censura! Non ve lo aspettavate che avrei intervistato amici di infanzia del Pepe e di sua moglie, vero?!, pensavate che avrei raccontato la solita storiella che raccontano sui giornali, ma io non sono un giornalista, te lo ripeto, dell'economia e degli investitori stranieri non mi importa niente, io scrivo della vita vera, della miseria in cui vivono i tre quarti dei tuoi concittadini mentre tu ti trastulli dietro a quella bella scrivania da burocrate! La burocrazia non è uno scherzo, giovanotto!, esigo il tuo rispetto. Non credo che lo avrete mai, io scrivo per ribellarmi e non per leccare i piedi a quelli come te.

21 aprile, pomeriggio - La dichiarazione d'amore del MEC

Rientrando a casa ho ricevuto un messaggino sul telefonino! Un'impiegata del Ministero dell'educazione in Italia ve lo ha mai mandato un messaggino sul vostro telefonino?! Beh, a me, sì, ed ecco quello che mi ha scritto: ciao Francisco, sono Adriana, del MEC, ho saputo che hai incontrato il Presidente, complimenti!!!, non preoccuparti per la dichiarazione di interesse, ci penso io.
Ora, premesso che non mi sarei mai aspettato che mi contattassero così, ho esitato per un momento perché non sapevo se dirle subito che avevo appena mandato a quel paese il suo collega del sesto piano oppure se fare come fanno le ragazze quando ti dicono una bugia senza dirtela in realtà, vale a dire, omettendo una parte della verità, quella parte in cui sono contenute le bugie. Non è facile, soprattutto perché essere una ragazza è un'arte che non si improvvisa quando sei un ragazzo, ma ci ho provato. Se puoi, passa di qui più tardi, mi ha detto, e porta la lettera che ti hanno dato, la buttiamo!
Così sono tornato al MEC per parlare con lei, l'ho trovata disponibile e sorridente come sempre, mi ha fatto accomodare e si è scusata per il comportamento del collega. Gli spiego io che il tuo testo è soltanto una parte del progetto, gli racconto del paese della filosofia e delle scuole, non preoccuparti. Per la verità, le ho risposto, a me della dichiarazione del ministro non è che importa poi così tanto!, non mi fraintendere Adriana, ma il fatto che a loro, al sesto piano, il testo non sia piaciuto, per me è una vittoria e non una sconfitta. È per questo che sei sempre così sorridente? Anche per questo; comunque, ti dicevo, per me è un fatto di etica, ho sempre scritto per ribellarmi a quelli come il tuo collega del sesto piano.
Ho raccontato ad Adriana che da quando sono qui avrei potuto raccontare le solite storie, trattare argomenti di interesse economico, e invece ho preferito parlare con la gente vera, con gli anziani del barrio, che mi hanno raccontato la versione del popolo, quella che a me interessava di più, non quella dei politici. Quando Adriana mi ascolta, mi sembra sempre che le piaccia la mia voce più delle parole stesse, e che quello che dico le serva per ritrovare il coraggio di inseguire la sua felicità. Il testo va bene, mi ha ripetuto sorridendomi, non c'è nessun motivo per cui non debba piacergli, il mio collega deve aver frainteso tutto. Ti ringrazio Adriana, sei dolce, e credi nella felicità, è alla gente come te che è dedicato il saggio; della dichiarazione d'amore del MEC non m'importa niente...


20 aprile – La vera Montevideo, per chi ama la verità

Recentemente è stato realizzato un reportage di quarantotto minuti sull’Uruguay. Un giornalista italiano è venuto qui e ha intervistato alcuni imprenditori locali, titolari di aziende vinicole e agrarie, nonché il Presidente Mujica nella sua chacra.
Il reportage della televisione italiana è molto interessante, descrive la vita di chi in Uruguay ha investito soldi e fatica e ne sta raccogliendo i frutti. Il giornalista, inoltre, portava una bella cravatta gialla e arancione e aveva noleggiato una macchina veloce all’aeroporto di Carrasco, con la quale si è potuto spostare anche verso l’interno, e verso le mete turistiche della costa. Per migliorare l’economia di un paese bisogna parlare degli investimenti possibili in modo da invogliare gli imprenditori stranieri a venire qui e spendere i loro soldi. Questo ci è chiaro. Ma ci sono tante altre cose di cui parlare, che non hanno nulla a che fare con l’economia, sono cose di cui nessuno parla. E adesso ve ne parlo io.
La scorsa settimana, per esempio, sono stato nel lato povero della città, nella zona dell’Ippodromo, dove la gente vive in case di mattoni e lamiere, strade intere fatte di mattoni e lamiere, che d’estate ardono come padelle sul fuoco e d’inverno si congelano. I bambini che vivono in questi quartieri, di mattina, non riescono ad alzarsi perché si svegliano congelati, e quando verso le undici il sole incomincia a riscaldarli, finalmente escono a giocare. Non tutti sanno scrivere, molti sanno a stento parlare, per far rispettare i loro spazi usano pugni e morsi. L’umidità raccolta sotto i bassi soffitti durante la notte si trasforma in gocce ghiacciate che cadono sui loro letti per tutto il giorno, e di sera sono costretti a coricarsi nelle lenzuola umide. D’estate, invece, quando le temperature qui raggiungono quaranta gradi all’ombra, le lamiere scottano e in quegli stessi letti ci si scioglie in una pozza di sudore.
Quando un giornalista deve parlare di economia, nel quartiere dell’Ippodromo non ci mette piede altrimenti i turisti e gli imprenditori stranieri non si convincono a venire in Uruguay. Ma io non sono un giornalista, sono uno che sta vivendo questa città con il corpo e con l’anima. Può darsi che a voi non importi nulla delle bidon-ville e della povera gente che va in giro con gli asini e i carri di legno per raccogliere plastica e carta dal fondo dei bidoni dell’immondizia; vederli mentre si tuffano nei bidoni non è bello come vedere i ricchi turisti argentini e brasiliani che si tuffano in acqua a pochi chilometri da qui, sulla spiaggia di Punta del Este.
Mi dispiace per gli imprenditori e per i laureati in economia, ma quando fai lo scrittore come lo faccio io te ne freghi degli investimenti possibili e ti occupi della miseria, perché la maggior parte degli uruguaiani vive nella miseria, vale a dire in condizioni che noi in Europa non siamo in grado di immaginare.
Nel reportage della televisione italiana non hanno neanche parlato del sistema legislativo di questo Paese, e in particolare di una legge che vieta di arrestare i minori di diciotto anni. Ci sono istituti di recupero per i minori, dove per un omicidio si prevedono tre anni, che diventano due se ci si comporta bene, e ancora meno se ci si comporta benissimo. Questi istituti si chiamano INAU, ce ne sono tre a Montevideo, ognuno funziona in una maniera diversa. Quello che ho visitato io è una specie di carcere, ci sono le sbarre alle finestre e si devono dividere i ragazzi per non farli sbranare a vicenda. I cinque impiegati che ci lavorano hanno dovuto frequentare persino un corso di autodifesa prima di essere assunti. In altri istituti per minori – mi hanno raccontato – si usano le droghe, e i ragazzi passano il giorno a letto.
A causa di questa legge a favore dei minori, a Montevideo c’è un tasso di criminalità giovanile molto alto, soprattutto perché gli adulti che vogliono rapinare un negozio o commettere reati anche peggiori, usano i ragazzini, per cui si creano piccole bande di un adulto e tre ragazzi per esempio, in quartieri pericolosi come Marconi o Casavalle. Il mio amico Pablo, che ci lavora, dice che non è facile resistere a lungo nell’INAU, gli impiegati restano al massimo un paio d’anni là dentro; lo stesso vale per le impiegate, se non subiscono prima violenze gravi.
Ci sarebbero tante cose di cui parlare, basta sedersi al bar e osservare le persone, e le loro storie ti arrivano nelle mani senza che tu faccia alcuno sforzo. Questa è una città piena di storie, c’è molto di più che uno sparuto gruppetto di imprenditori che hanno fiutato affari d’oro e si sono fatti intervistare dalla televisione italiana; l’Uruguay è un paese di gente libera, che non accetta compromessi, ma è anche un paese di donne sole che si realizzano soltanto rimanendo incinta, gravidanza dopo gravidanza dopo gravidanza, talvolta con uomini diversi, e a vent’anni già hanno tre figli; appena il più grande incomincia a camminare ne vogliono un altro, e poi un altro ancora, perché, senza, non sarebbero nulla, soltanto povere e anonime passanti.